L’omofobia non è solo un fenomeno sociale o culturale esterno.
A volte, il pregiudizio contro le persone LGBTQ+ si annida dentro la psiche degli stessi individui che appartengono a questa comunità.
Quando questo accade, parliamo di omofobia interiorizzata, un concetto che ha trovato spazio crescente in psicologia, sia clinica sia sociale, a partire dagli anni ’80.
L’omofobia interiorizzata può essere definita come l’introiezione, più o meno consapevole, dei messaggi negativi che la società trasmette riguardo all’omosessualità, alla bisessualità e ad altre forme di orientamento sessuale e identità di genere non conformi all’eteronormatività.
In altre parole, è il pregiudizio contro se stessi.
Uno dei modelli più utili per comprendere questo fenomeno è quello dello stigma interiorizzato, sviluppato a partire dagli studi di Erving Goffman, secondo cui lo stigma è un marchio sociale che segna l’individuo come “diverso” e lo pone in una posizione di inferiorità.
Quando la persona stigmatizzata assume su di sé tale giudizio, l’identità viene frammentata: chi sono diventa qualcosa di sbagliato.
All’interno della psicologia LGBTQ+, Meyer ha ampliato questo concetto con la teoria dello tress da minoranza.
Secondo questo modello, le persone LGBTQ+ sperimentano un carico di stress aggiuntivo legato alla loro appartenenza a una minoranza, che può includere discriminazioni, aspettative di rifiuto, occultamento dell’identità, e appunto omofobia interiorizzata.
Come si manifesta?
L’omofobia interiorizzata può avere effetti significativi sulla salute mentale.
Diversi studi l’hanno correlata a un aumento dei disturbi dell’umore, dell’ansia, a comportamenti autolesivi e a un rischio maggiore di suicidio.
Un esempio clinico tipico potrebbe essere quello di un giovane uomo omosessuale che sviluppa sintomi depressivi gravi, accompagnati da pensieri di autosvalutazione profonda, vissuti di vergogna cronica e isolamento relazionale, senza una causa apparente.
In terapia, può emergere un sé diviso: da una parte il desiderio autentico di vivere liberamente la propria sessualità, dall’altra un “giudice interno” che lo condanna.
In alcuni casi, l’omofobia interiorizzata può contribuire alla strutturazione di disturbi di personalità, soprattutto nei quadri in cui l’autostima è vulnerabile, come nel disturbo borderline o evitante.
È come se la persona vivesse in costante dissonanza tra ciò che sente e ciò che dovrebbe essere per “essere accettabile”.
Si osservano spesso meccanismi difensivi rigidi come la scissione (dividere il mondo in buono/cattivo), la proiezione o l’acting out.
Va detto che l’omofobia interiorizzata non è un punto di partenza immutabile, ma una condizione dinamica, che può essere affrontata e trasformata.
Il coming out, l’incontro con altri simili, la possibilità di narrare la propria storia in uno spazio terapeutico sicuro, sono strumenti fondamentali per ridurre il conflitto interno.
In quest’ottica, la terapia può diventare un percorso di riconciliazione identitaria, nel quale l’individuo riscrive il proprio senso di sé.
Un nodo politico e culturale
Non si può dimenticare che l’omofobia interiorizzata non nasce nel vuoto.
È un prodotto culturale, il risultato di leggi, religioni, linguaggi e istituzioni che hanno patologizzato l’omosessualità per secoli.
La diagnosi di “omosessualità egodistonica”, presente nel DSM-III (Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali) fino al 1987, ne è un esempio eloquente: era omosessuale malato chi soffriva per esserlo.
Come dire: se ti accetti, sei sano, se non ti accetti, sei malato. Ma il vero problema era il mondo intorno.
Dal 1987 l’omosessualità non rientra più tra le condizioni cliniche del DSM e nel 1990 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito l’ha definita una "variante normale del comportamento umano”.
Oggi, l’omofobia interiorizzata è una delle principali frontiere su cui lavorare, non solo per gli psicologi, ma anche per chi si occupa di educazione, salute pubblica e diritti umani.
Perché una società inclusiva non è solo quella che tollera le differenze, ma quella che permette alle persone di accettarsi profondamente, di esistere senza vergogna.
Dott. Francesco Scaccia
Psicologo Psicoterapeuta Coach
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Bibliografia
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- Ristori, J., Lingiardi, V. (2010). Identità sessuali e sviluppo psicologico. Il Mulino.
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- Ippolito, L. (2012). La terapia affermativa con persone LGBT. Edizioni ETS.
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